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Kitzbuehel e Wengen come non le abbiamo mai viste

18 Aprile 2020
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Rivista sci
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Sono le discese più famose e più amate dell’intero circuito di Coppa del Mondo. Però pochi sanno veramente dove si vince e dove si perde la gara e quali siano le strategie da adottare. Ce lo siamo fatto raccontare da due atleti che su queste curve e su questi salti ci sono andati “a nozze” per anni: Stefano Anzi e Roland Thoeni  di Luca Steffenoni

Quando il gioco si fa duro i duri iniziano a combattere. E’ proprio il caso di dirlo. La stagione delle grandi classiche della discesa è ormai entrata nel vivo. La mitica Streif di Kitzbuehel, il trofeo del Lauberhorn a Wengen, la Kandahar di Garmisch, la nostra splendida Stelvio a Bormio. E poi Schladming, Val d’Isère e via via tutte le altre per un pieno di adrenalina che durerà fino a primavera. Scendono in campo gli uomini jet. Si allacciano i caschi, si massaggiano i muscoli e si spera che il gran lavoro svolto in estate e in autunno dia i propri frutti..

Diciamo la verità, anche per noi atleti da divano, spericolati del telecomando, inizia un programma di tutto rispetto.

Ma prima di stappare il prosecco per festeggiare i successi dei nostri beniamini, siamo sicuri di capire e apprezzare fino in fondo lo spettacolo al quale ogni anno assistiamo? Siamo incollati allo schermo, intimoriti dalla visione di quelle lastre ghiacciate sulle quali faremmo fatica a stare in piedi, trepidiamo per gli spettacolari salti della Mausefalle, ci chiediamo come si possa sopravvivere al baratro dell’Hundschopf, come i tendini possano reggere le forze centrifughe all’ingresso della Carcentina, ma sulla discesa libera abbiamo le idee chiare?

Cosa fa la differenza tra atleti, tutti bravissimi e coraggiosi, che si ritrovano distanziati di pochi centesimi di secondi tra loro? Dove si guadagnano quei pochi metri che separano un podio da una gara anonima? Dove si rosicchiano quei millesimi tanto preziosi? Quanto conta la preparazione dello sci e quanto la struttura fisica dell’atleta?

Per risolvere i numerosi enigmi che ci frullano in testa, quale situazione migliore di una chiacchierata con due ex-campioni, che su queste piste hanno costruito la loro carriera portando sempre a casa la pelle. Maestri e allenatori che mangiano neve da sempre.

Approfittiamo della competenza di Stefano Anzi e di Roland Thoeni per capirci qualche cosa di più. Facciamo loro un po’ di domande da profani, in punta di piedi, con il massimo rispetto per chi, sia nei tempi passati che in quegli attuali, ha dimostrato di saper domare l’adrenalina e il cuore che batte a 150 all’ora.

Streif, l’inferno e il paradiso

Stefano Anzi, bormino doc, è un tipo di poche parole, come sono spesso le persone di montagna, ma quando parla di sci i suoi occhi si illuminano. Non ci giurerei, ma ho la sensazione che le sue gambe si inclinino con un impercettibile movimento, che le sue spalle, solo a nominare certe piste, subiscano una leggera curvatura quasi volessero cercare ancora una volta la posizione “a uovo”. Il primo italiano a vincere una discesa di Coppa del Mondo, tanti podi, campionati italiani, Mondiali, Olimpiadi. E’ un duro, uno che di piste ne ha viste tante, eppure bastano sei lettere per farlo sussultare, per riaccendere in lui la passione di una vita: Streif!

«Puoi vincere in tante piste, puoi aver successo, azzerare i tuoi punti Fis, ma è la Streif di Kitzbuehel che ti rende un vero campione, che ti promuove generale sul campo», sono le sue prime parole.

Tu ne sai qualche cosa, con quel secondo posto a 18 centesimi da Roland Collombin nella stagione 73/74. Quante volte l’hai fatta?

«In Coppa, se la memoria non mi inganna, undici volte».

Ci racconti la magia di questa pista?

«Potrei dirlo in mille modi, ma il concetto è uno solo: non esiste al mondo gara che possa eguagliarne la difficoltà, il fascino e, dunque, il timore reverenziale che incute. Ovviamente se parliamo di alte prestazioni e di pressione per il risultato, perché se la percorriamo rilassati, senza l’assillo della cellula fotoelettrica, le cose cambiano e anche Kitzbuehel diventa abbordabile. Infatti, mi è capitato di ascoltare agonisti e turisti di alto livello tecnico che ne sono rimasti un po’ delusi. Lo capisco. La Streif non concede nulla, nemmeno un attimo di distrazione, il più piccolo errore ti allontana dai primi dieci. Ma se la fai in scioltezza o per turismo è tutta un’altra cosa. E’ una pista che ha costruito miti come Klammer, ma ha rovinato tante carriere. E’ bastarda e magnifica al tempo stesso. Ma una cosa è certa: se vinci lì non è un caso, se vinci lì sei un grande campione».

Dove nasce il fascino della Streif?

«Sicuramente dai tre passaggi chiave: Mausefalle, Steilhang e Hausbergkante, che sono incredibili. Ti faccio solo un esempio. Quando esci dal cancelletto di partenza affronti una picchiata del 60 per cento di pendenza e devi subito tirare una curva che ti immette al salto sulla famosa trappola per topi. Bene, oggi tutti gli atleti sanno saltare, difficile cadere in quel punto, ma ciò che conta veramente è  l’atterraggio. E’ un salto nel quale è vietato andare lunghi. Se si atterra ancora sul ripido prima della curva successiva è tutto ok, ma se si va troppo lunghi, parliamo di due o tre metri su ottanta, allora sono dolori. Impossibile tenere la linea, gli sci vanno invertiti in volo, perché quando toccano la nevre praticamente devi aver già fatto la curva successiva. Il pericolo di andare diritti e farsi male è sempre in agguato».

Non solo trappole per topi…

Noi spettatori siamo sempre affascinati dai salti, se però andiamo a vedere i tempi parziali notiamo che qui le differenze tra i discesisti sono minime.

«Esatto, questo avviene perché i denti dei salti sono stati addolciti rispetto a un tempo e dunque fanno meno selezione, perché la preparazione atletica oggi è molto buona, perché gli attrezzi permettono dei recuperi maggiori e poi per come sono lisciate le piste. Il tempo non lo si fa più sul salto. Sul dente puoi perdere, ma non puoi vincere. La Streif si vince nelle stradine, nei pezzi di raccordo tra un salto e l’altro. Una prima differenza la fai proprio quando sei uscito indenne dalla Mausefalle. Arriva una curva difficilissima, un tornante dove devi andare in salita a prendere l’abbrivio in contropendenza per immetterti nel punto in assoluto più difficile della pista, ovvero la Steilhang, letteralmente la scarpata:  un muro nel quale devi invertire gli sci, affrontare una schiena d’asino sulla quale hai pochi riferimenti per poi immetterti nella famosa “stradina”, il Brückenschuss, larga non più di tre metri. Già imboccarla senza andare a toccare le protezioni è complicato, ma aggiungi che ogni centesimo perso sulla Steilhang lo paghi nel tratto successivo. Nonostante queste difficoltà, la Steilhang può fare danni, ma non dà la vittoria. Uno dei tratti della verità, dove si fa veramente la differenza, arriva subito dopo. Quando la diretta tv abbandona l’atleta perché entra nel percorso meno spettacolare e perché perfino posizionare le telecamere diventa molto complicato, qui si vince o si perde la Streif. Sembra strano, ma il tratto più facile della pista è quello decisivo».

Allora a Kitzbuehel se la giocano gli scivolatori?

«Non solo. E’ necessario essere uno sciatore completo. Tenere nei tratti più acrobatici, avere linee perfette in curva per non perdere velocità e fare la differenza dove la scorrevolezza è determinante. Oltre il Brückenschuss, c’è un altro passaggio fondamentale. E’ un tratto che passa quasi inosservato, di per sé piuttosto facile, invece è determinante. E’ la curva sotto la seggiovia, il Lärchenschuss, quella che ti porta all’Hausbergkante. Fai conto che sbagliare l’ingresso della Steilhang ti porta a perdere un paio di decimi, non di più, in compenso sbagliare il Lärchenschuss significa perdere due secondi perché in fondo la pista va addirittura in salita. Se arrivi con dieci km/h in meno praticamente devi spingere e la tua gara è finita. Capisci perché dico che si vince sui tratti più facili. Ti dirò di più. La controprova è che sono stato l’unico capace di perdere la gara nel tratto finale, dall’Hausberg al traguardo, quello più semplice, appunto. Avevo il miglio intertempo, ero passato indenne da tutte le insidie del percorso, poi Collombin, grazie alla sua maggior scorrevolezza e alla sua stazza fisica, è passato davanti di quei famosi 18 centesimi. E addio primo posto».

Si può dire che questa sia una regola valida per tutte le discese libere?

«Assolutamente sì. E’ il paradosso della libera. Devi stare in piedi, ma è quando ti metti in posizione che conquisti il tuo vantaggio. Come tutte le regole ci sono sempre le eccezioni, ovvero quelle piste dove non ci sono tratti di scorrimento. La Stelvio di Bormio, per esempio, forse la più tecnica e stressante di tutta la Coppa del Mondo. Lì i bastoni sotto le ascelle non li puoi mettere quasi mai e il tempo lo devi rosicchiare soprattutto negli ingressi delle curve, pennellando traiettorie perfette. La Stelvio si vince all’ingresso della Carcentina, dove c’è la curva più difficile della pista, che deve essere condotta con un capolavoro di tecnica sciistica».

Torniamo alla Streif, i tratti che profumano di vittoria sono finiti?

«Assolutamente no, è una gara che non dà tregua. Va detto che il tratto finale per l’atleta è fantastico, unico al mondo. Tu immagina che quando passi sotto l’arco pubblicitario, salti e metti giù le punte, vedi e senti queste sessantamila persone sotto di te che fanno un tifo sfrenato. Come atterrare sullo stadio di San Siro, con il boato del goal. Questo l’atleta lo sente e lo vede. E’ un’emozione incredibile. Ma non è certo il momento di perdere la concentrazione. Ti aspetta un altro passaggio fondamentale, estremamente critico sotto il profilo tecnico. Sei stanco, hai un minuto e mezzo di Streif sulla groppa, le gambe patiscono i tratti in posizione, hai in mente l’errorino che puoi aver commesso di sopra, la grattata sulla curva, il metro di traiettoria in più. Non puoi più concederti il minimo errore. Come atterri dal salto c’è immediatamente la diagonale dell’Hausberg, che è un altro punto difficilissimo. Una curva in contropendenza, preceduta da una compressione, poco visibile dalle telecamere. La compressione è un altro punto nel quale si fa la differenza. Se in questa fossa metti gli sci mezzo metro più in la rispetto alla traiettoria ideale, perdi aderenza e quando affronti la diagonale ti trovi venti metri al di sotto della linea. Senza aderenza lo sci va giù venti metri, scivola sulla contropendenza verso il basso senza che tu te ne accorga. Impossibile recuperare. Sembra eccessivo, ma nella fossa non puoi sbagliare di più di dieci centimetri».

A questo punto è finita?

«Beh, sei nel tratto più veloce, vai a più di 140 all’ora, affronti il salto “di Ghedina”, quello della celebre spaccata, ti metti in posizione e raschi le ultime energie e gli ultimi centesimi, sempre se hai la famosa scorrevolezza».

Concentrazione, chimica e scivolamento

Parliamo di questa benedetta scorrevolezza. Il tifoso pensa che sui tratti diritti più che mettersi in posizione “a uovo”, stare bassi e confidare nella preparazione dello sci, non si possa fare. E infatti alla tv si preferiscono gli atleti acrobatici, più muscolari.

«Purtroppo la questione non è così semplice. Per vincere bisogna avere tante doti: coraggio, tecnica, fisicità, ma soprattutto “sensibilità” sullo sci. Poi ovviamente c’è il mezzo tecnico, lo sci, la sciolina, la preparazione dell’attrezzo, che incidono notevolmente. Oggi non ci si affida più alle sensazioni dell’atleta o all’estro personale, a ogni pista e a ogni condizione atmosferica corrisponde un certo sci, studiato e “pensato” nei mesi precedenti. Il tipo di soletta scelta, la sua impronta, la sciolina, il tuning, il filo delle lamine. Insomma, tutto è diventato ultra tecnologico».

La Streif si vince anche in laboratorio?

«Anche. E nei mesi estivi, sui ghiacciai, facendo migliaia di test. Chi ha raggiunto il miglior compromesso fornisce all’atleta lo strumento essenziale per staccare gli altri. Per accarezzare la neve, con meno attrito possibile, per tenere lo sci piatto e renderlo scorrevole quando serve. Essere un bravo scivolatore è un dono di natura, ma anche un abbinamento tra uomo e tecnologia, un connubio tra la sensibilità del piede, la posizione dello sciatore, la sua struttura fisica e il mezzo che ha sotto. E non dimentichiamo lo scarpone, che deve trasmettere allo sci ogni minima sollecitazione. Anche la preparazione della scarpa è fondamentale».

Il fatto che voi ex atleti ricordiate con enorme lucidità ogni minimo passaggio, mi fa pensare all’importanza dello stato mentale.

«Beh, le discese sono come le gare di Formula 1, ogni tanto si fa qualche piccola modifica, si migliora la sicurezza, ma le piste sono ormai codificate, non si va di fantasia, non si può improvvisare. Per questo restano impresse per sempre in ogni passaggio. La mente è fondamentale. La capacità di concentrarsi, di visualizzare ogni tratto, di immagazzinare le indicazioni di chi ti ha preceduto, sono tutte cose determinanti. Anche per non farsi male. Per questo vedi che alla partenza gli atleti simulano a occhi chiusi il percorso, muovendo le mani quasi a voler tracciare le linee ideali. Aiuta a entrare in sintonia con la discesa».

La Streif di Roland

Passiamo a Roland Thoeni, occhi di ghiaccio, grande competenza e disponibilità. Basta non chiamarlo “il cugino” perché Roland, come lo chiamano in Alto Adige, è Roland e basta, uno sciatore polivalente che ha dato lustro allo sci azzurro e ancora oggi da del tu a molte tra le piste più belle del Circo Bianco.

Roland, anche il tuo cuore batte per la Streif?

«Beh, è una pista fantastica, molto difficile, dove viene premiato il coraggio. Quando si parte al cancelletto, la prima cosa è non aver paura, poi arriva il resto. Rispetto alle altre piste, Kitzbuehel richiede una dose di coraggio in più. Si parlava della Stelvio, ecco a Bormio bisogna saper sciare bene, soprattutto in curva, sulla Streif bisogna saper sciare bene, ma metterci quella dose in più di “pelo” per raggiungere il risultato. Bisogna buttarsi, poi è vero che la gara si vince sul pianoro, sulle stradine, ma bisogna arrivarci in velocità. I punti chiave, per trovare la velocità giusta, sono l’uscita dalla Steilhang e il tratto per arrivare all’Hausbergkante. Lì si vince e si perde la gara».

Confermi dunque le teorie di Stefano Anzi sull’importanza dei tratti di scorrimento?

«Assolutamente. Però va detto che negli ultimi anni il livello degli sciatori si è talmente alzato che quando arrivano sul tratto finale, i tempi sono molto vicini. La differenza allora la fa quel piccolo pezzo diritto prima della “spaccata di Ghedo” fino al traguardo. Molte volte il distacco si fa lì».

Quando subentra il fattore stanchezza?

«Direi che è più un fatto di concentrazione. Generalmente gli atleti quando vedono il traguardo istintivamente si rilassano, invece lì è dove devi dare il 110 per cento. La Zielschuss, la curva prima del traguardo e lo Zielsprung, il salto che ormai chiamiamo di Ghedina, stroncano le ultime energie e molti sono costretti a mollare. Chi ha ancora energie, muscoli e concentrazione affronta l’ultimo tratto sfiorando i 150 all’ora, un tratto da scivolatore veloce e può guadagnare ancora qualche decimo, fondamentale per la vittoria».

Torna il concetto di scivolatore. Allora domando anche a te. Quali sono le caratteristiche di un buon scivolatore?

«Sono doti naturali, c’è chi è più bravo sul ripido, chi nelle curve e chi nei tratti “facili”, raro eccellere in tutto. La sensibilità sulla neve e la scorrevolezza danno sicuramente dei gran vantaggi, soprattutto oggi che tutti sono coraggiosi e allenati per il ghiaccio e il ripido, e che gli attrezzi aiutano in curva. Per fare i tempi non resta che la parte “facile”, che poi facile non è. Diciamo che è meno spettacolare.

«Per essere un bravo scivolatore bisogna mettere insieme più cose. Innanzitutto l’attrezzo, la sua preparazione, sciolina, impronta, un po’ tutto. Poi conta la sensibilità, aderire bene alle piccole ondulazioni, evitare quelle piccole grattatine di lamine che frenano. La posizione ovviamente, che sembra uguale per tutti, in realtà è molto diversa, e infine il fisico dell’atleta».

Ci vuole un fisico bestiale

Oggi sono tutti dei ragazzoni fisicati, difficile trovare i mingherlini nelle gare di Coppa, ma in generale che influenza ha la corporatura?

«La legge della fisica dice che nel ripido chi è pesante perde qualche cosa. Guadagna invece nei falsopiani, nelle stradine, nei piani. Ricordo Grissmann, centoventi chili, che recuperava nel piano tutto quello che perdeva sui salti e sui muri. Però ci sono stati anche scivolatori leggeri che avevano una tale sensibilità sul piede da compensare ogni svantaggio fisico. Con l’allenamento, poi, si lavora sulle proprie debolezze e si migliora».

Si dice che la discesa libera sia la disciplina più conservatrice in assoluto. In effetti, lo sci da discesa è quasi diritto come quello di un tempo, il gesto tecnico non è cambiato molto e le piste sono spesso le stesse. La Streif dei tuoi tempi era molto diversa?

«Era molto più impegnativa. Soprattutto per come erano battute le piste. Oggi sono barrate, lisce, ogni dossetto viene fresato. Allora era spesso difficile stare in piedi. Gli sci vibravano a ogni cunetta e a ogni imperfezione e richiedevano uno sforzo incredibile per tenerli in linea. Sci e scarponi e attacchi ovviamente sono cambiati, ma soprattutto sulla Streif sono state fatte delle importanti modifiche per la sicurezza. Aumentate e migliorate tantissimo le protezioni, che una volta quasi non c’erano, allargata la stradina del Brückenschuss, tagliato il dente sopra la Mausefalle, che oggi è un salto molto più corto rispetto ai nostri tempi e quindi facilita l’ingresso nella Steilhang. Dal 2009, dopo l’incidente di Daniel Albrecht, anche il salto prima del traguardo, lo Zielschuss, è stato parecchio abbassato. D’altra parte le velocità media si è alzata per via dei nuovi materiali, che sono molto più performanti. Se poi pensi ai caschi, agli airbag, agli attacchi, vedi che la sicurezza ha fatto passi da gigante».

La Streif negli ultimi anni ha parlato italiano con le vittorie di Peter Fill e di Dominik Paris, come vedi i nostri quest’anno?

«Si sono allenati bene sui ghiacciai, anche in Cile hanno trovato buone condizioni di neve, adesso vediamo. In discesa libera ci sarà da competere con Beat Feuz, lo svizzero vincitore delle ultime due coppe di specialità».

E le nuove leve? Chi prenderà lo scettro di Hirscher per la coppa generale?

«Sempre difficile dirlo. Tengo d’occhio un ragazzo della squadra svizzera, un polivalente fortissimo fisicamente, tecnicamente e di testa: Marco Odermatt. Ne sentiremo parlare spesso».

Wengen, istruzioni per l’uso

Visto che parliamo di Svizzera, dimmi un po’ di Wengen, un’altra classica del Circo Bianco.

«La discesa del Lauberhorn ha altre criticità rispetto a Kitzbuehel – ci spiega Roland -. Tutti sanno che è la più lunga di tutto il circuito di Coppa del Mondo. Una gara che non finisce mai, quattro chilometri e mezzo per una discesa che dura circa due minuti e mezzo. Molto selettiva dal punto di vista fisico. Ma la vera particolarità di Wengen è un’altra. Ha tre scenari completamente diversi, che comportano tre temperature diverse e tre condizioni della neve diverse. Abbiamo la prima parte, in alto, un falsopiano a 2.300 metri esposto al vento, dove conta moltissimo la fortuna di avere l’aria a favore e dove le temperature sono spesso freddissime. Poi abbiamo la parte centrale, dopo l’Hundschopf, il salto più famoso, dove c’è il trenino e il passaggio sotto il tunnel. Qui le temperature si alzano, diciamo che sono intermedie e il tratto è di scivolamento puro. Infine l’arrivo, dove la neve ha un grado di scorrimento completamente diverso rispetto a sopra. La conseguenza è che il materiale e la sua preparazione giocano un ruolo fondamentale. Non puoi vincere se non azzecchi il compromesso giusto. A parte l’Hundschopf, un salto nel vuoto molto spettacolare, il resto di Wengen è un insieme di pianori e curve, dove si raggiungono i 160 all’ora, la velocità massima di tutto il circuito di Coppa e dove la media è sempre superiore ai 100 all’ora. Ovvio che la differenza la faccia il materiale, la posizione più o meno buona del discesista, la sua corporatura, la resistenza fisica e un pizzico di fortuna, senza la quale non si va mai da nessuna parte».

Materiali e scioline, dunque. Secondo te esistono ancora gli atleti dal tocco magico, quelli che sapevano scegliere lo sci giusto, come i vecchi sanno prevedere il brutto tempo? Esistono gli atleti che addirittura sanno dare indicazioni ai produttori oltre che allo skiman?

«Secondo me no, o comunque si tratta di un’eccezione. Ci sono quelli come era Hirscher, perfezionisti, maniacali, preparatissimi, che curano ogni dettaglio, che leggono ogni test e che sanno anche la velocità al millesimo di uno sci tra una porta e l’altra, ma sono molto rari. La realtà è che i testatori e gli skiman sono talmente specializzati e hanno attrezzature così precise che nessun atleta potrebbe competere con loro. Meglio fidarsi ciecamente del proprio team tecnico. Un tempo in partenza si avevano cinque o sei paia di sci, oggi un atleta di punta ne ha venti. Ogni paio corrisponde a una precisa condizione della neve. Basta che arrivi una nuvola prima che si apra il cancelletto e lo sci viene immediatamente cambiato. Tutto schedato e tutto computerizzato. Centinaia di dati archiviati nelle precedenti gare, nel lavoro dei tester e, magari, negli anni prima. Poi ci sono i test sul posto, importantissimi, per definire gli ultimi dettagli. Come potrebbe l’atleta, che ha altro a cui pensare, competere con questi strumenti? Gli danno lo sci migliore del mazzo e raramente sbagliano».

Anche Wengen è cambiata negli anni?

«Purtroppo c’è stato l’incidente mortale del ‘91 del povero Reinstadler sul salto finale e da allora il tracciato si è modificato per cercare di abbassare le velocità. Nonostante queste modifiche Wengen, grazie ai materiali sempre più performanti, resta una pista velocissima e sicuramente difficile».

Adrenalina fino all’ultimo secondo

Stefano, cosa mi dici di Wengen? Si avvicina alla tua amata Streif?

«Beh, se guardiamo la tradizione Lauberhorn e Hahnenkamm vanno a braccetto. Poi ognuno ha i suoi gusti. Wengen è una pista più diluita, su due minuti e mezzo di gara le parti veramente complesse sono dieci secondi all’Hundschopf, dieci alla Minschkante, il tratto dell’Haneggschuss, dove si superano i 160 chilometri orari e l’ultima parte fino al traguardo. In tutto mezzo minuto, massimo quaranta secondi, il resto è surplace. Sulla Streif e a Bormio, per citare le piste delle quali parlavamo prima, è il contrario».

Anche per te a Wengen il fattore climatico è importantissimo?

«Sicuramente. Wengen ha tutta la prima parte di gara, diciamo fino alla Minschkante, fuori dal bosco ed esposta al vento, che viene quasi sempre da ovest, per cui ce l’hai contrario. Basta una folata e perdi un secondo. Impossibile recuperarlo nemmeno se sei Svindal. Poi c’è il discorso sciolina. Con tre variazioni di temperatura e dunque di neve, azzeccare la giusta miscela è difficile perfino per gli svizzeri, che qui sono di casa e sono dei maghi della tecnologia. La chimica sulle solette e le doti di scivolamento sono fondamentali nel tratto intermedio, una lunga stradina, e sulla famosa Kernen-S prima del tunnel fino al pianoro che arriva all’Haneggschuss. Poi ti butti nel baratro, l’Haneggschuss appunto e lì conta di nuovo l’atleta. Con due minuti di corsa sulle gambe, una velocità altissima, il record è 161,9 km/h, diventa più un chilometro lanciato che una discesa libera. Oggi, per fortuna, il tracciato bypassa l’Oesterreichoch, la fossa degli austriaci, dove c’erano dei dossi terribili da affrontare dopo due minuti di gara, che hanno mietuto tante vittime non solo tra gli austriaci. Considera anche che il tratto finale è una lastra di cemento, un ghiaccio durissimo e che qualche dosso è rimasto. Quello che rende Wengen difficile, nonostante le apparenze, sono poi gli ultimi trecento metri. Credo sia l’unica pista che abbia le due curve più tecniche quasi all’arrivo, quando la stanchezza la fa da padrona e i muscoli fanno male. Lì ho visto atleti lasciare due secondi in dieci metri di tracciato».

Quindi Wengen si vince in fondo. Come direbbe Trapattoni: non puoi dire gatto se non ce l’hai nel sacco?

«In un certo senso sì. Bisogna avere energie e concentrazione fino a quando si passa sotto lo striscione».

Foto: Medialounge

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