
Quale comunicazione in pista? Spunti e linee per l’allenatore di sci alpino
Quale comunicazione in pista? Spunti e linee per l’allenatore di sci alpino
Il primo assioma della comunicazione (Watzalavick) dice così: “Non si può non comunicare. Non esiste qualcosa che sia un non-comportamento”.
Secondo questo assioma, quindi, anche la non comunicazione è una forma di comunicazione e anche il silenzio esprime un qualche tipo di pensiero e di comportamento.
Nel mio lavoro, utilizzo spesso la ricerca di contatto per capire (almeno provvisoriamente) chi sia il mio interlocutore o quali caratteristiche abbia il soggetto che rappresenta, sia esso uno sci club, un ente, un’istituzione.
Le parole in questo caso, ma anche il silenzio a volte, la “non-risposta”, mi aiutano a capire le caratteristiche e gli strumenti del mio interlocutore.
A partire da questo assioma e dagli altri della scuola californiana che li ha proposti (quella di Palo Alto) è possibile fare un discorso più generale che riguarda la comunicazione nello sci alpino; in particolare è possibile valutare l’efficacia comunicativa di tecnici – siano essi maestri, allenatori, ma anche istruttori nazionali (si pensi al corso maestri) – e di altre figure di supporto agli staff.
Non è facile essere sintetico, ma proverò a farlo, precisando da subito che non dobbiamo diventare degli psicologi, ma certamente essere efficaci nella comunicazione, a beneficio dell’atleta, dell’allievo o della persona in apprendimento.
a) In primo luogo non si dà nulla per scontato e termini molto diffusi e utilizzati in pista, non necessariamente sono comprensibili e soprattutto utilizzabili da chi dovrebbe trarne informazioni.
Un esempio, tra i molti possibili, l’invito ad essere concentrati.
Bene, la parola “concentrazione” non comunica molto, per il semplice fatto di essere astratta, non concreta e non comunica nulla sul processo che permette di attivare quella condizione.
Quindi la domanda è: come essere concentrati? Al fine di evitare errori ed essere focalizzati su quello che si sta facendo, sui propri obiettivi.
Va considerato – per inciso – che abbiamo solo immagini mentali o costrutti, fatti di parole, che per approssimazione trasferiscono all’altro quello che pensiamo; ossia quello che ci sembra “giusto”, conveniente (perché economico) e vantaggioso (perché efficiente) sul piano formativo e prestativo. E le parole, i concetti, sono sempre delle similitudini sul piano del linguaggio, spesso delle metafore e comunicano cose diverse a persone diverse; in virtù del bagaglio culturale, della sensibilità, del carattere, della disposizione del momento, ecc.
Per questo dico che definire e ridefinire il già dato ha una funzione chiave per allenatori, educatori, formatori e in genere per gli staff: ci sono idee e parole che a me aprono finestre importanti sul piano evolutivo (anche limitatamente allo sci), mentre lasciano altri pressoché indifferenti.
b) Se l’allenamento è il momento migliore per conoscere la persona-atleta e raccogliere informazione sul suo modo di essere e di fare (si è visto negli articoli delle settimane precedenti in che modo e in che senso, rispetto a quali parametri), è anche il momento nel quale l’allenatore, o il maestro, o l’istruttore, esercitano la loro azione comunicativa; azione che, a tutti gli effetti, è un esercizio di “potere”, sia esso positivo, negativo, o a volte pretestuoso, inutile.
Perché “negativo” o “inutile”? Semplicemente perché non efficace comunicativamente, non fondato su feedback concreti e su domande costruttive, in grado di evocare o rafforzare il contatto con il qui ed ora della situazione, la Sincronia (Vercelli).
Ma qual è un esempio di “domanda utile”?
Ecco, quella che ci siamo appena posti è una “domanda utile”, perché induce il lettore a riflettere su quale sia un tale tipo di domanda (cioè lo induce a fare introspezione) e aumenta i tempi di latenza: ci vuole un po’ a trovare una risposta!
c) L’obiettivo è quindi quello di stimolare nell’atleta o nella persona in apprendimento un ascolto attivo e una mobilitazione di risorse in qualche modo strategiche: problem solving, pensiero divergente, creatività, revisione e/o ristrutturazione di idee preconcette, convinzioni, ecc.
Per cui è bene programmare le sedute d’allenamento anticipando le componenti emotive che andremo a toccare – si ricordi che una peculiarità dell’azione educativa è appunto l’intenzionalità dell’azione stessa – ma verificando anche in itinere e a posteriori l’efficacia della nostra programmazione, ossia quanto appreso (de-briefing).
d) La comunicazione pregara ha caratteristiche diverse dalla precedente e punta, anziché all’implementazione o al rafforzamento delle informazioni e delle competenze (tipica dell’allenamento), su compiti bene precisi e risorse dell’atleta – prevenendo, per quanto possibile, eventuali rischi o errori.
Quest’ultimo aspetto è un aspetto chiave della prestazione e il rischio, l’imprevisto, l’errore, un ruolo di “principio ordinatore”, alla stregua di ogni altro dettaglio.
Qui la comunicazione del coach è orientata all’essenzialità e alla coerenza tra obiettivi e punti di forza ed è in qualche modo “risolutiva”, ossia non confusiva o problematizzante.
e) In gara il linguaggio è un linguaggio motivante, energizzante, non solo per quello che si dice, ma anche per come lo si dice: postura, gesti, tono della voce, prossimità fisica, gradi di empatia, mimica, ecc.
Nel post gara si fa il punto, si colgono le esperienze individuali, ma non si lavora nel dattaglio sull’errore, sulla sconfitta (l’atleta non è condizione di agire un ascolto partecipe e attivo); né si incoraggia qualcuno se ha fallito nel suo obiettivo: l’aspetto empatico risulterebbe compromesso e falsato.
Un’idea chiave è quella di “rispettare i tempi” e non giudicare, ma descrivere l’errore (o il successo) traendo da esso informazioni: il fine è qui quello di passare – indipendentemente dal risultato – da un atteggiamento valutante, a un atteggiamento descrittivo.
Si dice in gergo che si utilizzano feedback “a panino”, sempre partendo dal positivo: positivo-negativo-positivo ecc.
Si stimola in questo modo l’apprendimento dall’esperienza, e si approfondisce la parte analitica e la gestione dell’errore, che in questo senso risulterà utile e in qualche modo produttivo, suggerendo nuovi obiettivi di prestazione per il futuro.
Nel pregara è inevitabile che un atleta abbia incertezze, dubbi, paure ed è in questo momento che, come si diceva, l’allenatore o il coach hanno un potere positivo, nella misura in cui ristabiliscono priorità, obiettivi, focus e azioni essenziali. In altri termini sono in grado di:
– direzionare l’atleta (come?),
– esprimere empatia (riconoscere le difficoltà),
– creare significato (perché?), ossia di motivare il perché di un determinato impegno.
Creare significato coincide quindi con connettere finalità dell’impegno, obiettivi, valori, tempistiche (gestione del “fattore tempo”), ma anche definire e ridefinire sempre e nuovamente azioni, pratiche, dell’atleta o del gruppo.
Enrico Clementi – Educatore, Formatore, Consulente e Trainer educativo https://enricoclementi.it/
Autore de: L’allenamento mentale nello sci alpino. Prospettive e strumenti dal mondo dell’educazione (BMS, 2020) http://www.bmsitaly.com/prodotto/allenamento-mentale-nello-sci-alpino/
Per info, contatti, attività formative e di orientamento: enricoclementi017@gmail.com